Friday, July 3, 2009

Castello sforzesco

E in tra dò fil de piant che ghe fa ombria,
El gh'è on sentirolin
Solitari, patetegh, deliziôs
Che 'l se perd a zicch zacch dent per i praa,
E ch'el par giusta faa
Per i malinconij d'on penserôs.

Carlo Porta, L'apparizion de Tass
I castelli non sono così. Sono scomodi e un pochino bruttini. Anzi molto brutti, un'ammasso di pesante muraglia forata da porte ripensate, spesso sproporzionate, e la disarmonia delle cicatrici di finestre murate. Gli ingredienti imposti dalle forze occupatrici d'un impero straniero.
Ma questo è un castello rifatto da capo.
Girare da sola non mi piace, ecco l'ho detto. Tutti mi dicono che è normale stare soli, mi raccontano come sono stati a vedere la mostra delle rose da soli, oppure al cinema, o a vedere uno spettacolo su Broadway sola soletta, o andati a fare una gita in barca a velo con altre anime solitarie. L'è normal, dicono, ma per me non è così e non credo mai mi abituerà. Non voglio. Poi in una giornata troppo calda, troppo poca aria, con una parte di me che non sta mai tranquilla al pensiero di diver tornare a casa, assurdo lo so, preoccuparsi di un trenino regionale dopo tutta la strada che ho fatto, in questi giorni. E mi gira la testa.
Milano città bollente ma non per questo tranquillo anzi brulica. Corrono, senza sudare, la faccia seria, cell in mano, all'orecchio. Borse acconciature gonne cagnolini occhiali da sole. Persone che non guardano in faccia a nessuno. E poi coppiette. E famiglie, turisti stranieri e no, nonni e nipoti. Mi sento come se avessi un cartello sopra la testa, sola. Vai bene finché ti muovi, da sola, sembra che hai con chi incontrarti. Ma nel momento che ti siedi su una panchina, tutto cambia.
Questa è via Dante. In fondo si vede il castello. Non si vede il caldo. Ma c'era.

Non so perché mi gira la testa. Io penso che è a causa del mangiare poco e male. Non male, esattamente, ma poco sicuro.

Mattoni? Un castello brownstone dunque? O come i redbrick university, qualcosa meno di prima classe. Non è castel S Angelo, ecco. Non è Windsor. Non è Caernarvon, o Angers. Se devo darlo un fratello, sarebbe forse Cardiff. Non un complimento, il paragone con Cardiff... Milano città di MacDonald's dalla stazione fino al castello ho contato 8, escluso quello nella Galleria Vittorio Emmanuele, dove il solito logo giallorosso si placa in oro e nero, ma le polpette agli ingredienti misteriosi sono sempre quelle. Io alla fine mi sono fermata a prendere qualcosa, per vedere se gli ingredienti misteriosi potevano fermare il giramento.

MacDonald's e il mangiare fast food non è certo un fenomeno nuovo in Italia, eppure ordinare un pasto sembrava un'impresa difficoltosa per tutti i clienti davanti a me, ho fatto fila per un'eternità (quasi 6 minuti) prima che tocasse a me. Poco, quello che ho ordinato, perché è roba scadente, ma quanto bastava per fermare lo stomaco, o la pressione del sangue, o quel che ho che non va. Fuori al sole c'erano dei tavoli rotondi in legno con delle panchine in cimento. L'unico libero era a pieno sole, mi sono seduta perché non ce la facevo più. Accanto a me un uomo con la barba grigia stava finendo il pasto. Sembrava un senzatetto, portava i pantaloni sporchi e logori, e una camicia sfatta. Appena allontanatosi il suo posto è stato preso da una signora elegantissima con due bambine molto carine, si sono accomodate proprio dov'era il signore pochi secondi prima. Sfoggiavano gonna e camicetta firmati Amelia... Il Big Mac dunque, unisce tutto il mondo sotto l'insegna del mangiare in fretta.
Perché il tram, a Milano? Ce ne sono a Roma, tre quattro linee, come per non dimenticare gli anni '50... ma i milanesi sono davvero così attaccati all'epoca di Marcovaldo? Dovrò leggere con più attenzione quando torno a casa.
Nel 1447, i milanesi si sono autodichiarati repubblica, e hanno demolito il castello trecentesco... quindi neanche quello originale davvero antico. Qui si respira la Francia, qualcuno mi disse una volta. Penso ai castelli gallesi, come Harlech, voluti dal re inglese, ma costruito da esperti francesi. La grande repubblica milanese, privo di simboli di dominio crudele quale un castello minaccioso al cuore della città, durò ben tre anni. Il tempo, forse di radere al suolo il vecchio castello, portare via tutti i pezzi, magari come si faceva a Roma, rimodellare casa propria con delle bella pietra. O mattoni. Non lo so. Ma decidetevi, no. Buttare giù un castello e liberarsi da un signore, per riacquistare entrambi dopo meno di due anni, un soggiogarsi a forse che non hanno a cuore i tuoi interessi, uno sbaglio. Ma si sentivano forse spaesati, i milanesi, senza un despota alla guida del loro destino.
Gira rigira. Il caldo e le fontane, l'acqua e la pietra, e gli occhi di chi cammina senza sostare, e chi invece si ferma a guardare.
Ma mi sbagliavo, perché anche questo castello ha molte finestre rifatte più piccole. Il giro del castello fatto in un secondo momento rivela i segni particolari d'un astio tra quelli di dentro e quelli di fuori. Il castello è grande, ha dei cortili imponenti, dietro un parco immenso dove all'epoca degli Sforza c'erano cervi, lepre, quaglie, animali per il divertimento e per la tavola. Un deserto al centro della città dove tutto era lecito, bastava varcare la soglia, nascondersi in qualche angolo, e osservare la natura, mentre dall'altra parte del muro merlato i milanesi continuavano a soffrire o a nodà en la grassa, secondo la loro sorte.
Chi commanda protegge ma non sempre protegge i commdandati. Invece armonioso l'interno della corte ducale o Rocchetta, porticata e tranquilla. Qui c'è la stanza del tesoro, il forziere di Milano. Qui si trovano le stanze più belle del castello, qui c'è Leonardo e il Bramantino, e il letto di Isabella d'Este. Ma arrivata a l'una o poco dopo, le stanze erano chiuse per la pausa pranzo. Da vedere prima dunque gli altri musei: quello egiziano assolutamente scadente, quello della storia naturale, triste e piccolo.
Da visitare sicuramente la pinacoteca, e la mostra di mobili milanesi, da partire dal '300, mobili intarsiati, intagliati, arricchiti da gioielli, animali, vetri, vernici. Schermi per una chiesa, una specie di stanza a prova di paperazzi, fatta per una famiglia nobile per permetterla di assistere alla messa senza essere osservata. Comò e tiranti, sedie così pesantemente cesellati che sembravano sculture anziche luogo per collocare vestiti o oggetti personali.
Poi quello delle pietre antiche, interessante, come ho scritto, in particolare per la pietà Rondanini... ma un museo strano, disposto in sale decoratissime, che spesso stonavano con le opere stesse e con la maniera in cui sono esposte, certo non secondo lo stile rinascimentale.
Questa stanza, le pareti sono rifiniti in legno, ma un legno che sembra più quel rivestimento di pino tanto in voga negli anni '70 che un wainscotting elizabettiana come si trova nei castelli e le residenze nobili inglesi. Invece la soffitta rappresenta una foresta intera, i tronchi partono dagli archi, le foglie sono verdi e marroni e gialli e folti come una selva oscura...
Perché spendere tanto a pitturare la soffitta? I milanesi amano forse camminare con gli occhi rivolti al cielo, per non guardare in faccia a nessuno? Questo sono disposta a credere. Sono dei vigliacchi, i milanesi. Parlo in generale, ma anche con in mente degli specifici esemplari.
Che caldo, a Milano.
Un caldo umido, come una minestra fatta di avanzi rancidi riscaldata e riproposta in tavola troppe volte. Che voglia di ciappà el fresch nei saloni silenziosi del museo. Qui tra le pietre, passeggiano romani e lombardi, soldati e santi. Mi sono trovata davanti questa coppia dallo sguardo glaciale. Madre e figlio, tanto simili che anche se non fossero fusi in pietra, non si potrebbe confondere il legame di parentela.
Sempre pià pietra grigia, una passeggiata tra le rocce. Distruggono castelli, benedicono, ricordano i cari defunti, si vantano della propria bravura. Cantano la storia della Lombardia, una storia progressista, lavoratrice, onesta, e, dissi di no, mi, ricca.
Il cielo in un'altra stanza, il sole, invece. Non uno ma tantissimi baiocchi d'oro sullo sfondo arancione, forse modo di combattere il grigio freddo dell'inverno milanese. Strano, il museo, proprio per questo disaccordo tra le pallidi pietre, eterne e esterne, che fluiscono con una certa pesante armonia e similtudine da secolo in secolo, e le colorate interne, fragili e leggere, cosi diverse tra loro. Impossibile non notare i soffitti e chiedersi chi è stato in queste stanze prima di me, e se anche loro si sentivano soli, e se faceva maledettamente caldo, e se avevano voglia di capire Milano senza capire perché una città con la quale non ho nessuna lagame, che non mi piace, verso la quale non sento né lealtà né affetto, né curiosità intelletuale mi affascina tanto.
Un'altra stanza ospita il gonfalone di Milano, alto almeno cinque metri, questo gigantesco drappo squisitamente ricamato ai colori sgargianti veniva (e forse tutto ora viene) portata per le boulevards milanesi in occasione di festa e vittoria.. ma non quando piove, scommetto. .
Mi gira la testa.
Sono a Milano e fa troppo caldo e sono sola e mi gira la testa. Nella pinacotect ci sono delle panchine, mi siedo, ascolto il discorso di due signori accanto a me, parlano della storia dell'arte, del quadro davanti a noi, l'uomo che legge. ma non posso seguire, non voglio.
Penso a Isabella d'Este, il suo letto che mi aspetta nella Rochetta, insieme agli affreschi del Bramantino e i dipinti di Leonardo. E rinuncio. Il museo, in fondo, costa poco, solo 4 euro. Ci tornerò un altro giorno, in un'altra occasione quando non mi gira più la testa. Io tornerò. Con Milano non ho ancora finito, e non so perché ma l'idea di una storia rimasta aperta al futuro mi allegerisce, mi dà refrigerio. E prendo e parto, sempre maledettemente a piedi, per la sudata stazione, e poi per i sentieri del il mio amatissimo parco, e casa.

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